La morte ha un numero di telefono ...
Quel che è certo, è che ora nessuno lo rivorrà. Perché il numero di telefono O.888.888.888 (attivo, fino a pochi giorni fa, in Bulgaria, dove era collegato ad un telefono cellulare), è divenuto ormai famigerato, come: il “numero di telefono della morte”. Soprannome che, deriva da un insieme di coincidenze davvero sfortunate: tutte e tre le persone a cui quel numero era stato assegnato.. sono morte!
Il primo proprietario, l’ex numero uno della compagnia di cellulari bulgara Mobitel, è morto di cancro nel 2001, ad appena 48 anni. E, secondo i rumors, a causare quel cancro sarebbero stati i rivali d’affari, che avrebbero utilizzato del materiale radioattivo per avvelenarlo.
Il numero, è poi passato a Konstantin Dimitrov, boss della mafia bulgara, ucciso a colpi di pistola nel 2003 da un assassino mentre era in Olanda, in un’apparente missione per tenere d’occhio il suo impero di traffico di droga. All’epoca della morte, Dimitrov aveva 31 anni, e il telefono col "numero maledetto" era con lui, al momento dell’assassinio.
Lo stesso numero è poi passato al discusso uomo d’affari Konstantin Dishliev, ucciso fuori da un ristorante indiano, a Sofia, nel 2005. Da allora, il numero è rimasto sotto il controllo della polizia. Che ora l’ha chiuso, per sempre. Chi lo chiamasse oggi troverebbe un messaggio, che avverte: “Il numero non è raggiungibile”.
fonte: Yahoo, e..
http://www.misteroonline.com/la-morte-ha-un-numero-di-telefono-ora-eliminato.php.
Pubblicato in misteri, News
Nella nostra società vi è una vera e propria rimozione nei confronti della morte. Ne volete una prova? Eccola. Se cerco su Google “Giornalettismo + Berlusconi” ottengo 51.600 risultati, mentre se cerco “Giornalettismo + morte” ottengo un solo risultato: questo articolo (il che per inciso è incredibile visto che non ho ancora finito di scriverlo, ma si sa, questi di Google la sanno lunga). Stranamente se cerco “Giornalettismo + Berlusconi + morte” ottengo di nuovo 51.600 risultati ma questa è decisamente un’altra storia.
CON LA M MAIUSCOLA – Il punto è che gli esseri umani, affrontano il “Problema Morte” (d’ora innanzi PM) come affrontano qualsiasi tipo di problema: semplicemente non pensandoci. Prendete quest’articolo, i miei articoli escono il mercoledì no? Bene, fino a stamattina ho completamente i-gno-ra-to il problema di dover scrivere un articolo per Giornalettismo, e ora, che è già martedì pomeriggio inoltrato mi trovo a dover aprire la mia cartella segreta “Idee last minute per articoli giornalettistici d’emergenza” (quella con il teschio sopra) che contiene un unico file con un’unica parola: la moooorte (va detto con voce tremula utilizzando un effetto stile wha-wha sulla o). Ecco, la morte, è esattamente come quest’articolo (più o meno), uno pensa che basta non pensarci e alla fine non si muore, così come basta non pensarci e alla fine l’articolo si scrive da solo (ok, la metafora è un po’ traballante, ma tanto non ha nessuna importanza, un giorno saremo tutti morti). Insomma, la prima considerazione che vorrei fare è che non pensare a un problema non è un buon modo per risolverlo. Quindi partiamo da un dato di fatto: abbiamo un problema, stiamo per morire, chi più chi meno, tutti quanti. Un’ecatombe. La vita di un italiano medio (tipo Mike Buongiorno) è di circa 80 anni a cui vanno sottratti i 33 che ho già vissuto (merda), più 10 mesi (ci ho provato), per un totale di circa 16850 giorni ancora da vivere, che fanno 404.400 ore, ovvero 24.264.000 minuti, o infine 1.455.840.000 secondi a cui ne vanno scalati i 200 abbondanti che ho perso per fare questi calcoli idioti. Mentre voi state comodamente seduti in poltrona a leggere io sto letteralmente morendo! (l’ennesimo caso di morte sul lavoro, in diretta sulle pagine di Giornalettismo).
CONCLUDERE - La seconda considerazione che vorrei fare è che essere vivi piuttosto che morti è un’anomalia dal punto di vista statistico. Secondo un articolo di Carl Haub, pubblicato nel 2002 dal Population Reference Bureau, il numero complessivo di persone che hanno mai vissuto sulla terra è circa 106,5 miliardi. In pratica gli esseri umani attualmente viventi sono appena il 6% del totale. Siamo fortunati amici, ma non durerà per molto, credetemi. Dopo aver ammesso di avere un problema (mi chiamo Joe, e ho un problema con la vita) cerchiamo di vedere come risolverlo. Notiamo anzitutto che il problema non nasce dal fatto in sé del morire ma dal fatto che 1. dobbiamo morire 2. tendenzialmente non ci va di morire. Da cui c) abbiamo un problema. Per risolvere il problema possiamo concentrare la nostra attenzione sulla premessa a) o sulla premessa b) o sul rapporto di consequenzialità che lega le premesse a) e b) alla conclusione c). In primo luogo possiamo contestare la premessa a). In una variante del paradosso del tacchino induttivista di Bertrand Russell possiamo così argomentare.
Sono 34 anni che sono vivo ovvero circa 21900 giorni. In questi 21.900 giorni non sono mai morto. Ogni mattina mi sono svegliato e, ehy, ero vivo. Dopo 21.900 tentativi possono ragionevolmente concludere che non morirò mai. Pensate di tirare un dado 21.900 volte. Se uscisse lo stesso risultato tutte le volte credo che converreste che il dado è truccato. Ogni ulteriore lancio sarebbe superfluo. Posso inoltre constatare che da quando sono nato sono morte milioni di persone ma io mai. Sarà un caso? Posso pertanto ragionevolmente concludere di essere immortale.
THAT’S THE QUESTION – Il problema di questi paradossi beh, lo sapete no, morirete uguale. Non importa quanto vi sforziate di essere intelligenti. Passiamo allora alla premessa b). Se estirpassimo in noi il tenace desiderio di non morire avremo risolto il problema. Avremmo infatti questa situazione: 1. dobbiamo morire 2. dai, morire non è male, è fico 3. e infatti moriamo.Il che, come vedete, non crea contraddizione. Chiediamoci allora perché vogliamo vivere. Una parte del problema è senz’altro costituita dalla brutta nomea che circonda la morte. Già il nome, diciamolo, non fa allegria. E se le dessimo un nome più giovane, più trendy, se cercassimo di lavorare di più sul brand? Che so, invece di morte, “fiorellino” o “Sacher Torte”, la gente accetterebbe di morire (scusate il lapsus) di buon grado. La morte ha bisogno di un restyling che la renda più appetibile. Un’altra parte del problema sono i nostri maledetti geni. La paura della morte è stata in noi istillata da Madre Natura per far sì che cerchiamo di vivere il più a lungo possibile in modo tale da massimizzare le nostre probabilità di riprodurci. Madre Natura quando vuole che facciamo qualcosa ci va giù pesante. Non le basta dire “ehy amico, cerca di non morire e di buttare la palla in buca ok?”. Semplicemente, conoscendoci, non si fida Confidiamo che un giorno l’ingegneria genetica ci liberi da questa sciocca superstizione (e per inciso da quella secondo la quale fare bambini sarebbe qualcosa di desiderabile e razionale. Notiamo altresì come alcune religioni abbiano risolto il PM concentrandosi sulla premessa a) mentre altre sulla premessa b). Il cristianesimo (e tanti altre) si sono concentrate sulla premessa a). Non è vero che moriamo, cioè sì moriamo, ma poi risorgiamo, e viviamo IN ETERNO!. Il livello di accettazione del problema è in questo caso nullo. E come se vi diagnosticassero un tumore e voi rispondeste: non ho fatto alcun RUMORE! Non ci penso proprio a fare il TURN-OVER! Insomma, i cristiani mettono la testa sotto la sabbia.
LA SOLUZIONE? - Ma in fondo, dai, lo sappiano noi e lo sanno loro. In punto di morte questo gigantesco sforzo di rimozione (gnè gnè gnè io non muoio io non muoio!) inizia di solito a vacillare e si cagano sotto. Andrò in Paradiso? Andrò all’Inferno? No amico, sei morto, dove vuoi andare. Il punto della morte è proprio quello, che non vai più da nessuna parte. Altri, ad esempio i fondamentalisti islamici, si sono concentrati sulla premessa b). Non è vero che ho paura della morte, mi imbottisco di tritolo e pum! ficata. È una soluzione più ingegnosa ma abbastanza contorta. In termini psicoanalitici si parla di formazione reattiva: ho una paura fottuta di lavorare e divento Brunetta. Infine, e questa è l’alternativa, ci si può concentrare sul rapporto tra premesse e conclusione. Ok, dobbiamo morire, ok, non ci va di morire, ma è veramente un problema? Cioè quante cose ci sono che non ci va di fare eppure alla fine dobbiamo fare ugualmente? Che so, andare alla posta, scrivere un articolo (è un esempio a caso), oppure, che so, morire? Io penso che morire sia come andare alla posta (e un po’ come partire anche). C'è una fila tremenda di gente che aspetta di morire, ciascuno con il suo pacco, ciascuno diverso, ciascun in fondo perso. Puoi mandare una cartolina, puoi mandare una raccomandata, ma alla fine il tuo turno arriva. “La vita adulta è una lunga lista di incombenze, l’ultima delle quali è morire” scriveva a tal proposito un grande filosofo contemporaneo (coff coff). Che avesse ragione?
(lo speciale Morte, continua, se Dio vuole, la settimana prossima).
13 Commenti
- Ah ok me la segno. Nascere… vivere… morire.
Perché nessuno me l'aveva detto prima?
P.S: prossimamente la rubrica “Altro che vertigoz” - Commento in ritardo.
Il concetto di “senso della vita” è una fallacia logica, più precisamente una fallacia antropomorfa: le forchette hanno un senso perché chi le ha create agiva con lo scopo di mangiare meglio; gli uomini un senso potrebbero non averlo, a meno che non si creda appunto che siano stati creati da qualcuno con uno scopo. Se gli uomini sono quindi forchette autocoscienti si può parlare di senso della vita, altrimenti la domanda è nonsense, come chiedersi che forma ha l'acqua (il senso è una proprietà degli enti concepiti da un essere autocosciente, o meglio ancora una disposizione che l'essere autocosciente ha verso questi enti, non una proprietà universale di tutte le cose immaginabili).
Indubbiamente alla domanda si tende a dare, che abbia senso o meno, un forte contenuto emotivo, come a molte domande esistenziali. Non è sufficiente dire che probabilmente la domanda non ha senso, perché tanto poi viene riformulata in qualcosa che ha senso e continua ad avere contenuto emotivo. Una riformulazione che ha senso è “Che senso do alla mia vita?” (domanda un po' solipsistica). Nel mio caso potrei dire che voglio il bene delle persone a cui voglio bene, per fortuna pochissime altrimenti morirei di stress, e ogni tanto anche a me stesso. Questa risposta mi soddisfa sotto ogni condizione realistica che mi possa venire in mente, anche se non ha certo l'apoditticità e l'universalità di una risposta teologico-metafisica. - Non tutti vivono, anche se credono di farlo, questi temono la morte.
Chi vive la morte la considera un'esperienza molto importante che fa parte della vita.
http://misteroonline.altervista.org/blog/la-morte-ha-un-numero-di-telefono-ora-eliminato.php
ALTRI LINK:
http://it.wikipedia.org/wiki/
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Troisi: Come?
Prete: Ricordati…che devi morire!
Troisi: Va bene….
Prete: Ricordati che devi morire!
Troisi: Sì, sì …no… m'o me lo segno, proprio… c'ho una cosa… non vi preoccupate….
A parte gli scherzi, Vertigoz, mi sapresti spiegare che senso ha la vita se dopo un periodo di tempo, sia pure lungo, tutto si riduce al nulla?
La vita, quindi, sarebbe un “non senso” anche per chi dice “si” alla vita cosi come per un disperato che rifugge la realtà!
> A parte gli scherzi, Vertigoz, mi sapresti spiegare che senso ha la vita se dopo un periodo di tempo, sia pure lungo, tutto si riduce al nulla?
una domandina da niente insomma… ti risponderò magari con un post
Spero che in un prossimo post si tratterà anche la via transumanista all'immortalità, un tema ricorrente nella letteratura fantascientica post-cyberpunk.
Il senso della vita? Cosa si intende con “senso”? E perché avrebbe un “senso” solo se eterna? Gli eventi finiti nel tempo non hanno senso? Che senso ha il Sole? Ha senso chiedersi che senso abbia il Sole?
> si tratterà anche la via transumanista all'immortalità
ne sapessi qualcosa ne parlerei. ma non è detto che non ne parli uguale.